A pranzo con i ricchi

Tra ultimo Medioevo e Rinascimento: a pranzo con i ricchi

cena-medievale.pngGaleotto Del Carretto scrive la cronaca del pranzo di nozze tra Violante e Leonello presumibilmente nel 1493, cioè oltre cento anni dopo i fatti descritti. Egli può quindi già rendersi conto di un certo cambiamento nei modi di mangiare, anche se possiamo pensare che nelle corti di provincia (e per quanto ci riguarda anche in val Bormida) queste innovazioni entrino con un certo ritardo. E anche senza spingere all’eccesso il termine di paragone con un banchetto che fu certamente al di fuori del comune, si può tentare un confronto fra questo ed il successivo modo di affrontare un pranzo. Quello che viene descritto da Galeotto è, infatti, ancora un banchetto in cui la successione delle portate segue in pieno la tradizione medioevale. Si inizia anzitutto con una robusta portata di carne arrosto, alimento che caratterizzerà anche le imbandigioni successive della prima parte del pranzo. Le portate di mezzo tendono a divenire più leggere e dai gusti più stemperati, per tornare alle carni arrosto della terza parte, chiusa poi dai formaggi e dalla frutta. È da rilevare inoltre che il cibo è qui visto, secondo l’ottica medioevale, come mezzo per esternare la propria superiorità e che l’abbondanza di carne è, ricordiamolo, simbolo di potenza, anche intesa come prestanza fisica.

Collegati a questo periodo sono alcuni testi come il “Libro della cocina” di Anonimo Toscano e il “Libro per cuoco” di Anonimo Veneziano in cui troviamo ricette molto simili, se non uguali, a quelle proposte nel pranzo di nozze. Un salto di qualità notevole lo abbiamo, invece, verso la metà del Quattrocento con il “Libro de arte coquinaria” di mastro Martino: un cuoco nativo di Como, ma che esercita a Roma al servizio del “Revendissimo Monsignor Camorlengo et Patriarcha de Aquileia”. Questa opera è importante innanzi tutto perché è strutturata secondo un disegno preciso ed organico e poi perché è probabile che abbia raggiunto, benché sotto forma di manoscritto, una certa diffusione nelle corti del tempo. In secondo luogo l’opera di Mastro Martino è la fonte ispiratrice di Bartolomeo Platina, cremonese trapiantato a Roma, che con il suo “De honesta voluptade et valetudine” traccia le linee, diciamo Cosi “ideologiche”, del nuovo modo di mangiare. “Il piacere onesto e la buona salute” che il Platina scrive nel 1467, non è più solamente un ricettario, come il libro di Mastro Martino, bensi un vero e proprio trattato in cui le ricette sono inserite in una più ampia visione morale del problema cibo. Il fatto che un’intera opera, con velleità letterarie, sia dedicata a questo argomento è di per se emblematico di un notevole cambiamento di mentalità nei confronti del mangiare. Il cibo non deve più solo servire per il sostentamento (un concetto cristiano tipico degli asceti medioevali), ma esso può e deve dare “piacere” (benché “onesto”); una piccola rivoluzione che il Platina difende accoratamente nell’introduzione del suo libro:

“È del tutto falso che la materia da me intrapresa a trattare non si addice a un uomo civile. Vorrei che quanti mi accusano di occuparmi di cibi come se fossi un goloso ed un ingordo e quasi avessi l’intenzione di aggiungere nuovi strumenti di libidine per eccitare ancor più gli intemperanti e gli scellerati, vorrei, ripeto, che costoro fossero moderati e parsimoniosi come lo è il Platina”.

Un’autodifesa che è indice di un cambiamento non ancora pienamente accettato e in via di evoluzione: proprio questo fatto rende importante l’opera del Platina che viene a costituire il termine di paragone tra il vecchio e il nuovo modo di mangiare. Le differenze con il periodo precedente si misurano già nei primi capitoli, dove si consiglia come preparare la sala da pranzo in maniera ricercata:

“In primavera è bene spargere fiori sul triclinio e sulle tavole – dice il Platina – d’inverno bruciare profumi. D’estate si ricopre il pavimento con fronde di piante odorose, di vite e di salice, che rinfrescano l’ambiente. D’autunno si appendano al soffitto uve mature, pere, mele. Bianchi siano i tovaglioli, candida la tovaglia, altrimenti danno fastidio e tolgono la voglia di mangiare. Il servo ha da pulire accuratamente i coltelli e tenere la lama ben affilata…”

Oltre a queste novità, tra cui è da notare l’uso oramai consueto del tovagliolo, anche la scansione delle portate subisce una variazione sostanziale. Dice ancora Bartolomeo Platina:

“Nello scegliere i cibi si deve osservare un certo ordine, poiché all’inizio del pranzo si possono mangiare senza timore e con più gusto quelle cose che mettono in movimento lo stomaco e che danno un nutrimento leggero e misurato, come le mele e qualche pera. Aggiungo anche le lattughe e tutto ciò che si può prendere di crudo e di cotto da condirsi con olio e aceto. Inoltre quanto mai opportunamente si imbandiscono ai convitati, in particolare, le uova da sorbire e certi “tragemata” che noi chiamiamo confetture di spezie e pinoli, candite con miele e zucchero”.

L’abitudine di iniziare i pasti con della frutta non è comunque ancora normale neppure fra i nobili, come testimoniano i seguenti versi di Lorenzo de’ Medici:

“Queste frutta è ancor usanza che si mangia dietro cena a noi pare un’ignoranza a smaltire è poi ‘n pena, Par però fate un pò voi dell’usante innanzi o poi, ma dianzi non fan male, sì, credete, il detto vale!”

La seconda portata è costituita dalle carni, che vengono distinte e preferite in rapporto al sesso, all’età, alle singole parti. In generale sono preferite le femmine e apprezzati i castrati, i maschi si possono mangiare solo se spinti dalla necessità. Normalmente si preferiscono gli animali piuttosto giovani, anche se un maiale è considerato giovane quando va dai sei mesi ad un anno. Fra gli animali sono più pregiati quelli di montagna, piuttosto che di pianura e meno che mai quelli che vivono in zone paludose. Sempre il Platina consiglia per l’inverno carni che diano calore, come quelle dei piccioni, dei tordi e dei merli, mentre d’estate è bene mangiare carni che rinfrescano come i capretti e le pollastrelle. Coturnici e beccafichi sono consigliati in autunno, mentre in primavera sono indicati gli uccelletti presi dal nido, non appena abbiano messo le penne.

È una classificazione evidentemente non scientifica che risente di empirismi e vere e proprie superstizioni. Un aspetto questo che risulta evidente là dove si sostiene che il cervello di lepre o di coniglio funzioni da ottimo controveleno, o che mangiare il cuore acuisce la malinconia, cosa che avviene anche cibandosi della milza. “L’alimento più salutare – sostiene ancora il Platina – sono le ali degli uccelli, specie quelle delle galline e delle oche: grazie al loro movimento perdono infatti qualsiasi umore nocivo”. Affermazioni che si commentano da se, ma che rispecchiano un modo di pensare allora dominante, di cui però non dobbiamo stupirci troppo visto che in alcuni casi (emblematico quello dei funghi) sopravvivono ancora oggi. Al di là di questi aspetti folcloristici, c’è ancora da annotare, a proposito della seconda portata, la diffusione e la varietà dei numerosi intingoli che vengono proposti. L’uso delle salse come accompagnamento delle carni è sempre stato consueto sia per variare il monotono gusto dei cibi, sia per coprire od attenuare i non definibili sapori della carne mal conservata. Già nel banchetto descritto da Galeotto ne sono state nominate alcune ma in questo periodo successivo le salse e gli intingoli si moltiplicano sia come gusti che come colori.

Platina ne descrive ben ventidue, anche se, moralista com’è, ne approva l’uso solo per “risvegliare l’appetito, specie nel caso esso sia venuto meno per malattia o per il troppo caldo o per un onesto lavoro”. Poco più sotto, però, lui stesso ammette che il mondo percorre strade diverse ed “usa queste salse senza misura, quali eccessivi strumenti di libidine”. Parole grosse e sproporzionate che rivelano però questa nuova passione del tempo. Qualcuno vuole addirittura sostenere che questo rinnovamento della cucina italiana sia stato l’inizio anche della grande cucina francese, a seguito dell’arrivo in Francia dello stuolo di cuochi che Caterina de Medici portò con se al momento del suo matrimonio con il futuro re di Francia, Enrico III. Un’altra variante rispetto al passato la troviamo in un successivo capitolo dell'”Honesta voluptade…” dedicato alle “Pietanze in torta”. In esso Platina lamenta che “Le gole delicate della gente d’oggi esigono pasticci di carne d’uccelli o di altri animali da cortile, non di prodotti dell’orto… giudican doli vivande de servi”, si duole cioè che si prediligano le torte “galliche” (o di carne) a quelle “pitagoriche” così chiamate perché legate alla tradizione vegetariana dei seguaci di Pitagora. L’abbondanza di fritti descritti nel capitolo successivo sta a significare un uso abituale di questo modo di cucinare i cibi: sono descritte frittelle di sambuco, di latte rappreso, di salvia, di mele, di pesce ed infine le famose “frittelle di vento”, molto simili alle nostre “bugie” di Carnevale. Per friggere normalmente si usa lo strutto o l’olio di oliva; più raramente viene citato il burro. Dopo un intero capitolo dedicato alla cottura dei pesci, il Platina passa in rassegna “che cosa si debba prendere alla terza portata per sigillare lo stomaco a conclusione del pranzo. Dopo le carni sia arrostite che lesse si consigliano mele e pere acerbe; dopo i pesci sono invece preferibili mandorle, nocciole o noci, “poiché con la loro natura asciutta si ritiene che possano ovviare alla forza fredda ed umida dei pesci”. Probabilmente è invece molto diffuso l’uso, a questo punto del pranzo, di formaggio stagionato. “I commensali più raffinati – continua il Platina – mangiano anici e semi di coriandolo canditi con zucchero”, ma soggiunge, quasi sconsolatamente, “tutti mangiano castagne, che hanno una natura fredda e secca”. Non disapprova, invece l’abitudine di “mangiare cotogne e melagrane, soprattutto se acerbe”.

Questa ultima contrapposizione fra i cibi raffinati e quelli rustici è condivisa e codificata anche dai testi medici del tempo. In assenza dei moderni persuasori occulti (i mass-media) che ci convincono della bontà anche terapeutica ora di questo ora di quel prodotto, nel XV sec. sono proprio medici, come Guainerio o Bario, che teorizzano la separazione degli alimenti ricchi da quelli poveri. O meglio: degli alimenti adatti ai ricchi, da quelli adatti ai poveri. Il regime alimentare consigliato presenta una netta preponderanza di proteine animali e una carenza di sali minerali e di vitamine dovuta alla quasi totale assenza di frutta ed ortaggi freschi. Al massimo si consiglia l’uso di erbe, come la malva e la borragine, che sono ritenute medicinali e depurative. Al contrario si suggerisce il consumo di ogni tipo di carni, purché giovani, ivi comprensa la selvaggina. Anche gli uccelli sono accettati purché vissuti liberi: il cuore di rondine è addirittura ritenuto un efficace rimedio contro l’epilessia. L’uso dei pesci freschi è approvato solo se essi sono di acqua corrente; non sono invece apprezzate anguille e tinche perché di natura “vischiosa”. Poco adatti al delicato stomaco dei ricchi sembrano tutti i legumi, cosi come gli agli e le cipolle, più adatte al rustico intestino dei poveri. Tra la frutta si consiglia solo quella più rara come gli agrumi, i melograni o le “mele odorifere”, nonché tutta la frutta secca. L’uso del vino deve essere moderato con preferenza per i vini rosati o bianchi, se in estate.

Al di là però dal rilevare la sostanziale concordia fra queste nuove tesi mediche e lo schema di pranzo proposto dal Platina, non credo si possa ragionevolmente andare. Certamente qualcosa è cam biato nel modo di alimentarsi, ma nulla ci garantisce che i nobili si attenessero effettivamente a questa dieta. Anche facendo riferimento al tipo di regalie richieste dai Del Carretto nel contratto di affitto del 1501, possiamo renderci conto che essi si adattavano bene a consumare cibi più rustici purché, ovviamente, di prima qualità. Dove ci si distingue veramente, oltre che per la carne, è nei condimenti e nell’uso, e abuso, di spezie e di altri prodotti esotici e costosi, che venivano esibiti durante il pranzo a suggello del proprio successo sociale.

Tratto da “A tavola con i del Carretto” di Luigi Ferrando, Edizioni della Biblioteca del Centro Culturale Polivalente, Millesimo 1994

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