I primi casi
Il periodo di relativa tranquillità dei primi trent’anni del secolo viene turbato dalla carestia del 1628-’29 e dalla violentissima epidemia di peste dell’anno successivo: questi due eventi segnano una forte cesura nella storia, nell’economia, nella cultura materiale del paese.
Come si è appena detto, la terribile epidemia è preceduta da due anni di carestia causata dalla scarsità di produzione agricola verificatasi nelle valli e nelle campagne. In seguito alla carestia il paese viene quindi preso d’assalto da mendicanti e vagabondi, mentre si verificano tumulti, malcontenti e malumori tra la popolazione.
Il morbo, diffusosi per tutto il 1629 nell’intero Monferrato, attecchisce inizialmente lungo il confine. Allarmate, le autorità decidono di rafforzare i controlli per evitare che persone contagiate entrino nei centri abitati, di elevare i “rastelli” e di “tagliare” le strade. Queste misure per evitare il contagio sono complicate dalla necessità difensiva di inviare verso il confine nord (i valichi di montagna) e di far arrivare in città le milizie per fronteggiare la minaccia delle truppe tedesche che si trovavano al di là. Si decide di istituire le fedi di sanità, delle specie di passaporti interni che garantiscono che il possessore non è ammalato; la città e i borghi sono muniti di “rastelli” presidiati da guardie che controllano che non penetrino persone senza fede di sanità.
Nonostante questi provvedimenti l’epidemia riesce a diffondersi nel territorio; tenendo presente le pessime condizioni igieniche, le strettezze e l’angosciosa miseria del momento, possiamo comprendere come la peste, che seguiva il suo cammino sulle orme delle milizie alemanne abbia potuto svilupparsi anche nei nostri paesi. Anche nella nostra zona, alle prime manifestazioni di peste, vennero infatti prese misure tendenti soprattutto ad isolare le nostre località. Furono disposte opportune guardie sopra i ponti del fiume Bormida ed alle porte dei paesi. Il paese di Castelnuovo, collegato, oltre che con Rivalta, anche con Sezzadio tramite la “strada del pizzo” e con Cassine tramite la strada denominata “strada del Giardino” e che passando per la valletta conduce al fiume Bormida e al guado”, non solo fu colpito dalla peste in forma alquanto grave negli ultimi cinque mesi dell’anno 1630 (il primo caso è segnalato il giorno 15 agosto), ma continuò ad essere esposto al pericolo quasi per tutto l’anno 1631. Castelnuovo essendo situata al confine tra il Ducato di Monferrato e lo Stato di Milano rimaneva di per sè maggiormente a contatto con le truppe. Sappiamo che la vicina comunità rivaltese nel primo semestre dell’anno 1631, pagava sette scudi al mese quale salario “della guardia del ponte e del portello della terra per causa della contagione”;perciò possiamo ammettere che Rivalta Bormida, grazie alle misure attuate ed alla sua posizione geografica, sia riuscita ad isolarsi e rimandare di un anno la triste esperienza del contagio.
cause del contagio
E’ credenza diffusa in quel tempo che la peste sia frutto degli influssi delle stelle; la spiegazione delle cause è quindi legata alla superstizione oppure ad interventi di magia misteriosi e delittuosi. Come li descrive Manzoni ne “I Promessi Sposi”, i rimedi consigliati sono spesso assurdi e strani.
Alcuni scrittori del periodo riportano che la gente rimasta in città quando esce di casa porta una sfera di legno (di cipresso, di lauro e di ginepro o di altro legno odoroso), vuota internamente, profumata e perforata nella quale si mettono una spugna impregnata di acquaragia, aceto, ruta pestata con maggiorana o con rose rosse e quattro grani di canfora. Chi non può portare questa sfera si accontenta di tenere appresso qualche radice di serpentaria o di visco quercino o di panporcino; di peonia o di genziana. Proprietà miracolose sono attribuite alla bettonica. Anche le pietre preziose sono considerate misure preventive: il giacinto vero è portato a contatto del corpo, o in bocca o sul mignolo della mano sinistra, il topazio è portato dalla parte del cuore, mentre il diamante è legato al braccio sinistro. Molte erbe aromatiche, come pure incenso, mirra, zolfo vengono fatti bollire con l’aceto e ridotti in pasta si portano addosso; con l’acqua ottenuta si lavano le ascelle, l’inguine e il petto. Altri rimedi consistono nell’uso di suffumigi e di “vescicanti” e nell’effettuazione di “cauteri”. Alcuni sanitari intuirono che la derattizzazione costituiva un mezzo profilattico efficace e che l’infezione veniva trasmessa per contatto tra le persone o panni infetti.
la morte nera
« Tintinnabula non sano lacrimæ non clamans. Tan nos did eram expectant mortem, qui modo insanum, spectans in spatio aliquo shelling Rosarii, alii ad ultimum relictis vitiis. Multi dicerent: Suus fine mundi. » | « Le campane non suonavano più e nessuno piangeva. L’unica cosa che si faceva era aspettare la morte, chi, ormai pazzo, guardando fisso nel vuoto, chi sgranando il rosario, altri abbandonandosi ai vizi peggiori. Molti dicevano: “È la fine del mondo!”. » |
Le vicende di tale epidemia ebbero quale cronista un medico di Cassine, Alessandro Arcasio (Arcadio per alcune fonti), che più volte prestò la sua opera a favore degli abitanti di Castelnuovo. Il suo scritto “Contemplazioni medicinali sopra il contagio” purtroppo è tutt’ora molto difficile da reperire e consultare.
Quando nonostante i provvedimenti e le precauzioni, si ebbero i primi casi di peste, le disposizioni dell’autorità civile tesero ad un’azione profilattica vera e propria, per fronteggiare il morbo ormai penetrato in forma epidemica. Si vietò il commercio delle robe usate ed in modo assoluto il contatto di qualunque persona sospetta. Furono inoltre sospesi i mercati, gli affari ed i traffici normali: ogni paese perse il suo aspetto consueto e tutto il ritmo della vita si andò improntando alle precarie condizioni della salute pubblica. Per evitare ogni contatto pericoloso, i mercanti porgevano la merce attraverso un’apertura e ricevevano il denaro in recipienti pieni di aceto; a quest’ultimo infatti era attribuita una specifica azione disinfettante. Per purificare l’atmosfera, si tentava di migliorare direttamente le condizioni dell’aria, con l’accensione di fuochi, con profumi e con sostanze aromatiche. Molti tenevano sostanze odorose in bocca o portavano sotto il naso spugne imbevute di aceto: in mancanza d’altro si fiutava tabacco. Dovevano essere notificati tutti i casi di infermità e senza ritardo tutti i decessi, si doveva provvedere al trasporto gratuito dei morti; i funerali dovevano eseguirsi senza alcuna pompa e senza l’intervento delle confraternite, per evitare il propagarsi del contagio. Per timore di tale infezione non venivano battezzati i bambini, il panico tra la popolazione fu certamente grande; molti abbandonarono il paese per portarsi in aperta campagna ed in altre località.
E’ facile immaginare il tormento angoscioso a cui furono assoggettati i parroci dei diversi paesi nell’esercizio del loro ministero; noncuranti del continuo pericolo che ovunque li circondava, animati dallo spirito di carità cristiana, essi affrontarono i rischi del contagio per amministrare agli appestati i sacramenti, com’è confermato dagli atti di morte. Anche se in primo tempo, alcuni sacerdoti, travolti dal panico generale, si allontanarono per spirito di prudenza da quella abnegazione richiesta dal difficile momento, sappiamo che a Castelnuovo “in quel tempo serviva per curato, per la morte del molto reverendo prevosto, un padre di San Francesco di Cassine, detto il padre Pisano“. Padre Crescenzio da Cartosio scrive: “dopo otto anni di presenza nel borgo di Cassine, i Cappuccini vennero richiesti per assistere i paesani nella terribile epidemia della peste. Sopra tutti si distinse il padre Giusto da Moncalvo che, col compagno Lucido Pisano da Cassine si prodigò eroicamente; ma trascorso appena un mese fu assalito dal male”. Era alquanto difficile trovare persone disposte ad affrontare il pericolo del contagio, i sospetti furono quasi sempre rinchiusi nelle loro dimore e solo raramente beneficiarono dell’assistenza altrui. molto diffusa era la diceria che la peste fosse portata dagli untori, i quali, per malvagio proposito, andavano spargendo per le case l’infezione. Alle cure dei bubboni e alla pratica dei salassi provvedevano i barbieri, “alle purgationi” delle case degli appestati e dei morti pensavano uomini di bassa origine, i “monatti” del Manzoni.
Si evitavano gli assembramenti di persone, quasi sempre il Consiglio Comunale si radunava fuori della Casa Comunale; i notai rogavano i loro atti in aperta campagna e in “pubblica via”. Quale esempi segnaliamo che in data 31 gennaio 1631 “è stato convocato il consiglio di Castelnuovo Bormida nella cortile della Gabiana, fini di detto loco, non potendosi congregar nella casa del Comune conforme il solito stando il mal di contagione”: e così pure il 13 febbraio 1631 fu “convocato e congregato il Consiglio di Castelnuovo Bormida in la pubblica strada, presso il ponte di suddetto loco, non potendosi congregar nella solita casa del Comune, stando i sospetti per il mal contagioso”. In ogni paese inoltre, per allontanare il contagio e diminuirne la durata, furono fatti voti solenni a San Rocco, di cui era molto diffusa la devozione; a Castelnuovo Bormida fu costruita una cappella tuttora esistente.
Il 4 maggio 1631, Marco Antonio Lorgno ricevette solo il sacramento della penitenza per il pericolo della contagione. Il parroco, don Gerolamo, come appose nel liber mortuorum un contrassegno per indicare l’inizio della peste a Castelnuovo, così segnalò che in data 7 settembre 1630 i morti erano già cento, e che in data 30 ottobre raggiunsero i duecento: in data 6 novembre troviamo segnato per l’ultima volta di suo pugno il duecentotrentasettesimo morto di peste; in data 15 novembre è registrata la sua morte, dal successore, don Giovanni Gallesio di Rivalta Bormida. La mortalità giornaliera in data 6 novembre era ancora abbastanza alta (7 morti) e perciò la peste continuò senz’altro a mietere per alcune settimane altre vittime, tra cui il parroco, don Gerolamo Ruginenti. Citiamo ancora il caso della Famiglia di Marcantonio Lorgno: in data 13 settembre morì il figlio Francesco di anni 10; poi il 15 settembre la figlia di anni 7; il 27 settembre il figlio Giovanni, di anni 2; ed infine il 12 ottobre all’età di anni 40, decedette il padre. L’unica superstite fu la madre, la signora Maddalena Lorgno, che in data 9 maggio 1632 convolò a seconde nozze. Dal 17 maggio al 23 dicembre 1631 a Castelnuovo Bormida ci furono 11 decessi. Possiamo affermare con una certa sicurezza che tale morbo aveva ormai cessato di infierire verso la metà di novembre dell’anno 1631. Dal 18 ottobre non vi sono più annotati morti fino al 10 novembre. Se ci soffermiamo ad esaminare dove venivano sepolti, col procedere dei giorni, i morti a Castelnuovo durante l’imperversare del morbo, possiamo farci un’idea dell’aumento giornaliero delle vittime: dal 15 agosto al 15 settembre i primi diciotto morti furono sepolti indistintamente nella chiesa parrocchiale; dal 16 al 30 settembre la maggio parte in San Giacomo, e qualcuno nel “cemeterio”, e dal 29 ottobre al 6 novembre in una comune “fossa”. La peste del 1630/31 incise profondamente sulla storia del comune di Castelnuovo Bormida e dei paesi limitrofi, perché, come tutti i flagelli epidemici, portò allo spopolamento ed alla povertà.