Gerarchia sociale e alimentazione

maestro_martino.jpgDiversi tipi di potere hanno generato diversi tipi di alimentazione, perché, se forse è vero che l’uomo è quello che mangia, è invece assodato che mangia in rapporto a quello che è. Nell’Alto Medioevo, ad esempio, un “capo” non può essere tale se non si ciba di molta carne che diventa un segno della sua forza; al contrario privarsi della carne, od esserne privati, è segno di penitenza e di umiliazione, come ben rappresenta anche il precetto cristiano, allora rigidissimo, dell’astensione dalle carni il venerdì. Nell’Ultimo Medioevo, invece, le distinzioni alimentari fra i vari ceti sociali hanno assunto altre caratteristiche e differenziazioni. Permane, è vero, ancora la diversa disponibilità di derrate alimentari, che sono praticamente illimitate per i nobili, ma non è questo il solo carattere distintivo. Per la nobiltà è in atto in quel tempo un fenomeno che oggi chiameremmo di “nouvelle cousine”, concretizzato nei vari testi di Mastro Martino (1450), di Bartolomeo Platina (1467), di Cristoforo Messisbugo (1549) ed altri, che cominciano a circolare manoscritti fra i cuochi di corte, con l’effetto di mutare profondamente le mode alimentari del tempo.

Gli stessi medici – tra cui Giacomo Albini, medico di corte Savoia – teorizzano un doppio regime alimentare, a seconda che ci si rivolga ai nobili, od ai ceti inferiori. Si creano così dei veri e proprii “tabù alimentari di classe” che – come sostiene A.M. Nada Patrone – creano dei codici di comportamento ben precisi. Al nobile non è consentito di cibarsi di cibi rustici, pena malattie e dolori, mentre per i popolani è cosa disdicevole cibarsi di cibi raffinati che il loro stomaco grossolano non può assimilare. Queste concezioni prospettate dall’Albini già all’inizio del XIV sec., vengono riprese nelle pubblicazioni di Antonio Guainerio (metà del XIV sec.) e di Pietro da Monte Bairo (fine del XV sec.) – entrambi collegati alla corte sabauda – che rappresentano la cultura medica dominante in una regione a noi molto vicina. Ai nobili viene così consigliato l’uso di alimenti raffinati ed esotici, che contribuiscono a scavare un ulteriore solco fra la loro e l’alimentazione del popolo, che rimane più tradizionale e statica. Le frequenti raccomandazioni dei medici ad attenersi alle diete, lasciano però trasparire frequenti trasgressioni dei nobili verso la cucina povera, benché spesso l’arte di arrangiarsi e la necessità provochino anche in questa dei lenti, ma significativi cambiamenti.

Una delle distinzioni più marcate – di lungo periodo, dice Braudel – che ancora sussistono tra la cucina popolare e quella nobiliare sono i condimenti o “fondi di cottura”. L’opposizione fra grassi animali e vegetali non ha diviso solo il vecchio mondo in due parti ben distinte – il Mediterraneo ed il continente – ma, nel nostro caso, anche due tipi di cucine. In val Bormida l’olio di oliva, benché in vendita al minuto (ma chi poteva comprarlo?), è un alimento di appannaggio dei nobili e degli ecclesiastici, ed anche il burro, che compare già nel XIII secolo col nome di “bitèr”, è ancora un elemento di lusso. Al popolo rimangono i condimenti tradizionali, cioè lardo e strutto, con netta prevalenza del primo, che si confeziona semplicemente salando il grasso dei numerosi maiali e che ha il vantaggio di essere condimento ed alimento insieme.

Il lardo è dunque il prodotto base per la nostra cucina popolare, sia che si tratti di minestre o di fritti, ed è appena integrato da quel poco olio di oliva o di noci che le scarse finanze permettono. Forse per coloro che possiedono una mucca si può ipotizzare l’uso del burro, prodotto che però si conserva male (irrancidisce facilmente) e che si preferisce vendere per realizzare un’altra piccola entrata. I nobili possono accedere facilmente a tutta una gamma di prodotti cari e rari, che sono preclusi alla gente comune: tra i prodotti di moda è già stato citato lo zucchero, che è, ad un tempo, medicina ed alimento raffinato. Lo stesso si può dire del riso, prodotto che diverrà poi popolare, ma che all’inizio è riservato agli stomaci signorili. Numerosi altri sono i vizi alimentari dei signori, ancora rappresentati dai prodotti esotici tradizionali – spezie, arance, crisomille (albicocche), datteri, uve passe, melograni, canditi, etc., che presto verranno sostituiti dal caffè, dal cioccolato, e dal the, le nuove e costose mode frutto delle recenti scoperte geografiche. La cucina del popolo e dei nobili, prima solo parzialmente differenziate, sono destinate a divaricarsi molto in questo periodo, in cui i nobili diventano padroni del bello, ma soprattutto del buono.

Tratto da “A tavola con i del Carretto” di Luigi Ferrando, Edizioni della Biblioteca del Centro Culturale Polivalente, Millesimo 1994

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