Vita d’altri tempi

Il Podestà era nominato dal Feudatario ed era stipendiato. L’arbitrio del Castellano predominava, il consiglio era formato da 10 Consiglieri delle famiglie più ragguardevoli e agiate, “de majori registro”. Si radunavano al suono della campana. Fra i Consiglieri si eleggevano due Consoli, capi dell’ amministrazione comunale e giudici. Buona parte dei Consiglieri erano analfabeti e firmavano le delibere col segno della croce. Quando non erano concordi sui provvedimenti da adottare, si procedeva a votazione per mezzo delle fave e dei fagioli. Si distribuiva ad ogni Console e Consigliere una fava bianca ed una nera; chi approvava metteva in un cappello nelle mani del “Nodaro Segretario” una fava bianca, chi non approvava una fava nera. Consoli e Consiglieri erano personalmente responsabili dell’ esecuzione degli ordini superiori. Nei momenti difficili spesso fuggivano e lasciavano il comune senza amministrazione. Il 26 giugno 1704, l’ anno della battaglia, era stato proposto di ricorrere al Senato di Casale perché permettesse che in Consiglio potessero entrare “persone de migliori del luogo mentre che durerà la guerra quantunque fossero parenti, perché nel luogo non vi sono persone idonee per sostenere le persone del Comune stante che anche nelle congiunture del passaggio delle soldataglie vi erano in Consiglio persone quali sono fuggite et hanno lasciato questo Povero Popolo Disperato”. I giovani chiamati al servizio militare erano recalcitranti, non avevano ideali, né potevano nutrire sentimenti patriottici. Per chi dovevano combattere? A quale scopo? Si viveva nella completa apatia e le guerre per loro erano solo cagione di guai, di miserie, senza vantaggio alcuno. Bisognava spesso “ mandare il birro con gli huomini di scorta a captivarli”. Mancando ogni educazione, l’ idea di Nazione non esisteva ancora, altri sentimenti predominavano. Ben compassionevole era lo stato psicologico di gran parte dei nostri antenati!

veglia invernale 2.jpgNel medioevo e nei tempi che seguirono, la superstizione tormentava lo spirito del popolo rozzo, ignorante, credulone e ne rendeva la vita piena di incubi, di paure. I fuochi fatui e specialmente le streghe erano oggetto della fantasia e delle conversazioni, specialmente nelle lunghe veglie invernali tenute nelle stalle dei maggiori proprietari, illuminate scarsamente col lumicino ad olio sospeso alla volta con una canna, intorno al quale le vecchierelle filavano la canapa col fuso e la rocca e andavano a gara nel raccontare storie paurose di tregende, di spiriti maligni, di rumori notturni, di fantasmi apparsi ad implorare, a minacciare. Erano banchetti magici dove comparivano pietanze e leccornie provenienti da tavoli regali, immagini diaboliche, filtri, cavalli invisibili che portavano le persone dove queste volevano, rapidi come il lampo; era una cappa che rendeva invisibile chi la portava, una verga magica che trasformava le persone in lupi, gatti, vampiri. E le vecchie nonne assicuravano che il nonno del tale aveva visto o sentito o conosciuto.

Non si creda che i giovani fossero imbelli, anzi erano armigeri e combattivi; ma d’ istinti quasi selvaggi e feroci, maneschi e capaci di azzuffarsi con chicchessia. Intanto i monelli giocavano sulla paglia dei buoi, i più piccoli si stringevano per la paura alle vesti della mamma e i giovani a gruppi conversavano nella penombra.

La stregoneria nel 1500 aveva raggiunto la massima diffusione, benché, fin dai secoli anteriori si fosse cercato di reprimerla. Coloro che erano creduti stregoni o streghe venivano imprigionati, processati e condannati al rogo. E durante parecchi secoli le mamme e le nonne riempirono le teste ai bimbi di novelle e di fiabe, di cui le streghe erano il tema principale. Poveri fanciulli! Non ricevevano altra istruzione; quindi si può dire che, fatte pochissime eccezioni, i nostri poveri antenati erano analfabeti! Essi vivevano poveramente in miseri tuguri di terra a bassi soffitti di legno anneriti dal fumo, con finestre strettissime ad impannata (stamigna) e pavimenti di terra battuta spianata alla meglio. Nei loro letti pullulavano gli insetti, altri si annidavano sul corpo e fra gli indumenti delle persone con loro ineffabili tormenti.

il vino fa sangue.jpgIl fuoco del largo camino cuoceva i miseri cibi e raccoglieva, durante l’inverno, sotto l’ampia cappa, i membri della famiglia, se questa era fornita di legna; in caso contrario, le stalle erano per loro un tiepido ricovero e un luogo di ritrovo. Le terre, nelle mani del Feudatario e di pochi signori e particolari, erano poco e male coltivate; devastate continuamente dalle truppe, non rendevano tanto da sfamarli tutti; scarso il bestiame e spesso colpito e decimato da pestilenze. Chi lavorava a giornata era pagato con pochi soldi o poche derrate; i suoi bimbi scalzi e mal vestiti erano felici quando potevano avere una focaccia (tutù) cotta sotto la cenere. In una supplica al Podestà in data 6 maggio 1773, molti disgraziati dichiarano di non saper come sfamarsi. Il pane non era sempre di grano, ma il più sovente di misture che lo rendevano pesante e indigesto. Il cattivo nutrimento e la mancanza assoluta d’ igiene cagionavano spesso malattie epidemiche e contagiose quali la pellagra, dovuta all’eccessivo consumo di polenta. I contadini integravano la dieta troppo povera a base di polenta con il vino: “il vino fa sangue” si usava dire.

Il servizio sanitario troppo lasciava a desiderare. Secondo le notizia che abbiamo riguardanti i secoli XV – XVI – e XVII, si nominava un Cirugico barbiere con delibera chiamata “Ferma del Barbiere” che stabiliva le seguenti condizioni:

kit barbiere.jpg“Il barbiere sarà obbligato, come pure s’ obliga rissiedere qui nel luogo, di servire a far la barba, cavar sangue, ventosare e far tutto quello che s’ aspetta ad un buono e diligente cirugico, si per rottura, slocature, ferite et di far di tutto, et nient’ escluso, e per mali longhi che siano in guarire, et di far la barba al mercoledì et al sabbato. Et per salario li son.i Cons.ri li promettono lire tre Milano da pagarsi da cadun fogante ed a esigersi da lui medesimo a sue spese et a suo resigo e pericolo da tutti li fumanti di questo territorio al tempo del raccolto del grano. Di più promettono la casa per sua abitazione”.

Il barbiere teneva entro una bacinella d’ acqua una bella noce che il cliente doveva mettersi in bocca per arrotondare le guance e rendere più facile la rasatura.

In fatto di giustizia i piccoli avevano sempre la peggio e i prepotenti, a cominciare dai castellani, potevano impunemente commettere ogni sorta di soprusi. I Feudatari “ avevano in loro favore il comando dell’ armi, l’autorità giurisdiziale e la connivenza del Principe interessato a non disgustarli per non metterne in cimento la fedeltà”. Nei loro manieri tenevano uomini violenti e sanguinari in qualità di sgherri o bravi, disposti a commettere, per assecondare il loro padrone, ogni sorta di violenze, di stragi, di atrocità. Che dire poi della servitù della gleba? E’ vero che il Cristianesimo aveva, col volger dei secoli, attenuate le condizioni pietose degli schiavi; ma la servitù della gleba durò in molti luoghi fino alla rivoluzione francese; i lavoratori della terra facevano parte del fondo ed erano proprietà del padrone, il quale li aveva comprati col fondo e con esso poteva venderli.

Vigeva inoltre una legge iniqua detta “ Legge del Fodero” per cui le spose novelle erano obbligate, appena celebrato il matrimonio, a recarsi nel castello e mettersi a disposizione del Signorotto fino al giorno seguente. Era il famoso: “ jus primae noctis o ius foderis”. In molte località avvennero feroci ribellioni contro i prepotenti che mantenevano in vigore questo turpe diritto e popolavano i paesi di bastardi. Ancora nel secolo scorso la parola “ Bastardo” veniva usata da coloro che volevano lanciare ad alcuno un’ orribile atroce offesa. I nostri nonni ci raccontavano che Castelnuovo non fu sempre esente da questa legge vergognosa, specie nell’oscuro periodo medioevale. Le donne in generale erano tenute in poca considerazione nella società e nella casa; non essendoci scuole, rarissime quelle che sapevano leggere e scrivere; dovevano occuparsi dei lavori domestici, allevare i figli, aiutare il marito spesso anche in lavori faticosi. I denari li teneva soltanto il padre, che li dava limitatamente per le spese occorrenti, ( ma non sempre ne aveva); nelle famiglie patriarcali, dove i figli erano a loro volta già padri di famiglia, il vecchio presiedeva a tutto, dava ordini, distribuiva il lavoro, teneva la cassa. La moglie era soggetta al marito, doveva ubbidire e servirlo, quasi come una schiava; gli dava del Voi, mentre egli la trattava col Tu. prato 1890.jpgNella famiglia plebea il padre e i figli maschi sedevano a tavola e la madre e le femmine stavano accanto al focolare colla scodella o con la fetta di polenta in mano, pronte alla chiamata del capo, che si faceva scodellare la minestra o tagliare la fetta di polenta, benché queste gli fossero a portata di mano. La moglie secondo il Codice Civile, non poteva vendere beni immobili, far donazioni, contrarre mutui, cedere e riscuotere capitali senza l’ autorizzazione del marito, il quale, con atto pubblico, poteva dare quest’autorizzazione e revocarla a suo arbitrio. Importante lavoro della donna era quello di filare la canapa con la rocca e il fuso; la rocca era una canna sulla quale si poneva canapa, lana o lino per ridurli in filo, servendosi del fuso che era di legno tornito, corpacciuto nel mezzo e sottile nelle punte; ad esso si accappiava il filo e si faceva girare rapidamente con la mano destra, mentre la sinistra andava staccando dalla rocca la canapa. Le donne più intelligenti, poi, avevano nella loro casa il telaio, costruito dagli artigiani stessi del paese e tessevano la tela. Lavoravano con le mani e coi piedi, seguendo il movimento con allegre o meste canzoni. Provvedevano così la biancheria e perfino tela per abiti che veniva colorata in varie tinte.

Una cosa alla quale noi, abituati alla smagliante luce elettrica, non sapremmo adattarci, era l’ oscurità delle strade durante la notte, non soltanto nei piccoli paesi come il nostro, ma anche nelle città piccole e grandi. Ve lo immaginate l’orrore di dover uscire di casa mentre il paese è tutto ammantato di tenebre? Non v’era un uscio aperto, non s’ incontrava anima viva, se non forse qualche malandrino animato da cattivi propositi. Il cimitero era vicinissimo al paese e talvolta i fuochi fatui facevano arricciare i capelli ai passanti, che li credevano anime dei trapassati. Ancora verso la fine del secolo scorso lo scrivente, che si recava a far scuola in altro comune, dovette certe mattine per tempo percorrere le vie del paese guardando in alto il barlume del cielo, talvolta rannuvolato, per non incappare nei muri. Il nostro comune aveva già messo, è vero, i lampioni a petrolio, ma questi venivano spenti alle 23 e per tutta la rimanente notte le strade erano buie come la bocca di un forno. I Signorotti del medioevo, quando uscivano di notte, erano scortati da bravi armati fino ai denti e da lacchè muniti di torce a vento che andavano agitando. I poveri lacchè dovevano precedere il cocchio al passo, al trotto, di corsa secondo il capriccio del padrone. In talune città v’erano i portatori di torce che si prendevano a nolo come guide nell’oscurità. Coloro che vissero nel primo milleottocento usarono ancora i rami di pino spaccato e le torce a vento fatte con la canapa intonacata di resina. Più tardi si usò poi la cera, i grassi, gli oli. Fu nella prima metà dell’ottocento che si cominciò a usare il gas per illuminare le grandi città e prima di tutte Londra nel 1812. Si usarono le lucerne a petrolio dette a lucilina. Quando finalmente anche a Castelnuovo furono messi i lampioni a petrolio, questi erano così rari e distanti fra loro che in molti tratti regnavano ancora le tenebre. Il viaggiare a quei tempi era quanto mai disagevole e pericoloso. Le gambe, per chi le aveva buone, erano il mezzo più comune per recarsi da un luogo all’altro. In due ore s’andava in Acqui, in quattro ad Alessandria. V’era chi viaggiava coi cavalli, sui muli, sui ciuchi e commerciava (parlo di Castelnuovo) con Genova, Savona, Casale, Vercelli, Novi, Nizza. Nei grandi centri facevano servizio le carrozze, le diligenze, e nei viaggi lunghi, da una tappa all’altra, facevano il cambio dei cavalli nelle osterie dove i viaggiatori si ristoravano e pernottavano. Chi doveva recarsi lontano accomodava per bene i suoi affari materiali e spirituali e faceva testamento, perché succedeva talvolta di imbattersi nei banditi, briganti, ladri che intimavano: “ O la borsa o la vita” e magari toglievano l’ una e l’ altra. E le strade? Com’erano le strade? Tutt’altro che adatte per agevolare il cammino; v’erano ciottoli e buche ovunque; talvolta attraversavano boschi e foreste o erano affondate tra due rive e durante le piogge e gli acquazzoni diventavano torrenti con pietroni e con pozze da guazzare dentro.Dai privilegi e diritti del Feudatario sulle persone e sulle cose, si può arguire come i poveri sudditi vivessero in timore e soggezione.

Tratto dal Manoscritto di Luigi gaioli

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